NAPOLI – “Una sentenza storica – dichiarano Francesco Leone e Simona Fell, soci fondatori dello studio legale – che segna un punto di svolta per tutti i ricorsi presentati dal 2015 ad oggi, essendo tutte le procedure selettive degli ultimi anni caratterizzate dalla medesima violazione. Anche l’ultimo test d’accesso, infatti, non ha garantito l’anonimato dei candidati. Alla luce di questa sentenza, tutti possono proporre ricorso, a prescindere dal punteggio ottenuto. Si tratta infatti di una gravissima irregolarità – spiegano i legali – in quanto, come più volte affermato dai giudici amministrativi, “nelle procedure concorsuali l’esigenza di assicurare il rispetto effettivo del principio costituzionale del pubblico concorso e la regola fondamentale dell’anonimato ad esso sottesa costituiscono la base di un dovere indefettibile per l’amministrazione”. Siamo lieti che le nostre battaglie stiano portando ai risultati sperati. Oggi anche i nostri ricorrenti del 2015 potranno vedere riconosciuto un diritto fondamentale, quale è quello allo studio. Ci auguriamo che adesso questa sentenza – concludono gli avvocati Leone e Fell – possa fare da apripista per tutti i ricorsi successivi, compreso quello avverso il test del 3 settembre 2019 e che non si debba attendere tutto questo tempo per ottenere giustizia!”.
“Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis) – si legge nella sentenza – definitivamente pronunciando sul ricorso e sui relativi motivi aggiunti lo Accoglie al pari dei motivi aggiunti e per l’effetto annulla la graduatoria con essi impugnata, nei limiti dell’interesse dei ricorrenti. Accoglie la domanda risarcitoria in forma specifica e per l’effetto dispone l’inserimento anche in soprannumero dei ricorrenti tra i soggetti ammessi a frequentare i corsi di laurea per cui è giudizio”.
Nello specifico, la prima violazione del principio dell’anonimato si è prodotta nel momento in cui il Miur ha previsto che, una volta aperto il plico con il materiale necessario allo svolgimento della prova prove selettiva, ogni candidato dovesse “prioritariamente” compilare la scheda anagrafica che non era precompilata, inserendo i propri dati e non predisponendo alcuna busta per contenerla. Una volta compilata, quindi, la scheda anagrafica è rimasta esposta sul banco durante tutto lo svolgimento della prova, senza che fosse fornito alcuno strumento per sottrarla alla vista del personale.
La presenza della scheda anagrafica “prioritariamente” compilata, in luogo di un qualunque altro documento d’identità, ha dunque consentito ai commissari di vedere l’abbinamento “nome candidato – codice plico”, in quanto il nome del candidato era ricavabile dalla scheda anagrafica, tenuta in vista sul banco; il “numero segreto” del codice plico era leggibile sui fogli della prova di concorso su cui i candidati dovevano lavorare (questionario, modulo risposte e foglio di controllo).
Un’altra violazione dell’anonimato si sarebbe prodotta per i ricorrenti nel momento in cui sul modulo risposte del candidato è stato apposto un codice plico prestampato (alfanumerico composto da 9 elementi fra numeri e cifre) ed un codice alfanumerico (“Etichetta Miur”) che doveva essere applicato dal candidato, prima della consegna dell’elaborato. I due codici svolgevano funzioni differenti: il primo, quello denominato “codice plico”, già stampigliato sui modelli forniti ai candidati per lo svolgimento della prova, doveva servire ad abbinare il questionario al modulo risposte, in modo da consentire la correzione dell’elaborato, ma in realtà per svolgere tale funzione sarebbe bastato il solo codice a barre senza l’aggiunzione di un ulteriore codice alfanumerico sottostante; il secondo, quello denominato “etichetta Miur”, doveva essere apposto al termine della prova, rispettivamente sulla scheda risposte e sulla scheda anagrafica e serviva appunto a ricondurre l’elaborato all’identità del candidato. Il primo codice, identificativo della prova di ciascun candidato, era visualizzabile e, pertanto, memorizzabile fin dall’inizio della prova, in quanto presente non solo sul modulo risposte, ma su ogni altro modulo fornito al candidato per lo svolgimento della stessa e, cioè, in particolare, sul questionario e sul foglio di controllo utilizzato dal candidato per prendere appunti o eseguire operazioni utili per lo svolgimento del test. Memorizzazione resa agevole dalla circostanza che dei nove elementi componenti il codice, i primi sei erano uguali per tutti i candidati, identificando l’ateneo e la tipologia di prova, mentre le ultime tre cifre individuavano il candidato. Quindi, non solo su questi documenti il candidato, secondo quanto previsto dal bando e dal foglio istruzioni prova, poteva inserire qualsiasi dato e scrivere qualsiasi informazione, ma lo stesso codice per i ricorrenti poteva fungere da segno di riconoscimento. Ragion per cui appariva un paradosso che da un canto l’amministrazione censurava l’apposizione di qualsivoglia segno di riconoscimento nella prova, ma al contempo apponeva il codice plico: elemento di identificazione che avrebbe potuto ancor meglio agevolare i candidati e i commissari, che avessero voluto falsare il concorso.
“Il principio dell’anonimato – precisano i legali – risultava di fatto già violato nel momento in cui le amministrazioni hanno legittimato la presenza di un vero e proprio segno di riconoscimento, consentendo l’individuazione del codice non solo ai commissari, ma agli stessi candidati che potevano quindi comunicarlo a terzi. Questo è sufficiente a ritenere violato il principio di imparzialità e trasparenza che deve essere garantito in ogni selezione pubblica, nel 2015 così come nel 2019”.
Per maggiori delucidazioni e per spiegare anche a chi ha proposto ricorso negli anni successivi le implicazioni di questa storica sentenza, i legali dello studio Leone-Fell terranno una diretta streaming sui propri canali social (pagina Facebook: Avv. Francesco Leone) mercoledì 4 dicembre alle 17.30.