NAPOLI – Diverse coltellate ai fianchi dopo una lite sulla viabilità. E così che ha perso la vita Antonio Liberti, il 44enne ucciso a Nola lo scorso 11 settembre.
Il suo aggressore, un uomo di 38 anni del posto, con precedenti, è stato arrestato dalla Polizia di Stato.
“Giustizia per Antonio” – recita a caratteri cubitali lo striscione esposto in quella stessa strada diventata teatro di una tragedia. I familiari, gli amici di Antonio, soprattutto sua moglie ed i suoi tre figli, non sanno darsi pace per una morte così assurda provocata non da un gesto impulsivo ma da un atto premeditato, almeno in parte. C’è stata una lite per una precedenza non data, un’auto percorreva la strada nel senso corretto di marcia, l‘altra in controsenso. Il litigio non termina sul luogo del fraintendimento. Quello che da lì a poco sarebbe diventato un killer chiama a soccorso amici e parenti ed organizza un raid a casa di Antonio dove trova la moglie ed i figli che vengono aggrediti. Sopraggiunge Antonio in soccorso della famiglia e per tentare di appianare la situazione ma le sue parole trovano di risposta una lama affilata. Così Antonio lascia moglie e tre figli.
A raccontare l’intera vicenda è stata la moglie di Antonio alla presenza del deputato di alleanza Verdi-Sinistra Francesco Emilio Borrelli che ha portato la sua solidarietà alla famiglia Liberti e ha voluto dar voce alla vicenda affinché non cada nel dimenticatoio.
“I tre ragazzi hanno perso un padre ed ora ogni giorno devono trovarsi sotto gli occhi la famiglia dell’assassino che tra l’altro avrebbe occupato abusivamente una casa”- commenta Borrelli- “Un omicidio in pieno stile camorristico. Un agguato, una vendetta d’onore. Si può mai uccidere per una lite su una precedenza? Nel mondo della camorra si, eccome.
Io credo che sia arrivato il modo di approfondire certe tematiche. Si tratta di subumani, è quello che sono, ma tale condizione non è prevista dal codice penale, viene punito il gesto ma estirpato dal contesto.
E qual è questo contesto? Ecco, credo che non sia errato parlare, lì dove le leggi dello Stato sono estranee, di micro-mafie, o micro-camorre. Sono realtà che si trovano più in basso negli step evolutivi rispetto alle mafie riconosciute, non hanno come queste un’organizzazione strutturata, né una completa radicalizzazione nel tessuto socio-economico, né codici ma hanno comunque delle regole, una cultura fondata su disvalori che viene imposta tramite la violenza, la prepotenza, l’intimidazione agli altri. Esercitano attività predatoria e esiste comunque una gerarchia familiare. Realtà che possono esistere al Sud ma anche al Nord soprattutto in quei luoghi ‘chiusi’ come all’interno di comunità bucoliche o di montagna.
La storia della mala del Brenta, riconosciuta dalle sentenze come mafia, dimostra come poi questi fenomeni possano fare il passo successivo e trasformarsi in vere organizzazioni criminali. Allora il punto è questo, il codice penale dovrebbe riconoscere tali realtà e prevedere pene ad hoc. Altrimenti le città continueranno a brulicare di questi assassini o potenziali tali.
Bisogna pensare a colpire i criminali ma lo stesso tempo occorre tutelare le vittime e le loro famiglie. Non abbandonandole, non lasciandole sole, ma soprattutto dando loro giustizia.”