NAPOLI (Di Anna Calì/ Fonte foto Gennaro Regina) – Francesco Pio Maimone, Giovanbattista Cutolo, Santo Romano, Emanuele Tufano, Annalisa Durante, Gelsomina Verde: nomi che evocano un dolore che Napoli non riesce a dimenticare. Sono volti di una gioventù spezzata, sacrificata a causa di faide, violenze e conflitti che spesso appaiono incomprensibili, con moventi banali come una scarpa sporcata o una parola di troppo. Storie che, a modo loro, raccontano la tragedia di una città divisa tra la bellezza dei suoi scorci e la durezza di una realtà sempre più cruda.
Quello che spaventa è il crescere di una nuova “cultura della violenza” che coinvolge sempre più giovani, spinti a comportamenti che sembrano avvicinarli, anche indirettamente, al mondo della criminalità organizzata. L’incremento di episodi violenti e di risse – come quella recentissima tra gli studenti del Liceo Mercalli e del Liceo Umberto in via Ascensione, avvenuta il 17 ottobre – è un segnale allarmante di una deriva che sta coinvolgendo anche ragazzi di famiglie considerate perbene, apparentemente lontani dalle logiche criminali.
Il caso della rissa a Chiaia: tra rivalità e preoccupazione crescente
L’episodio in questione ha visto coinvolti giovanissimi studenti, tra i 13 e i 16 anni, appartenenti a famiglie della Napoli “bene”. Quella sera di ottobre, la rivalità tra gruppi di studenti dei due licei, nata da motivi sportivo-calcistici, è esplosa in una violenta rissa in piena strada, disturbando e indignando residenti e passanti. Scene simili si erano già viste mesi prima, in aprile, nei giardini Mercadante di Corso Vittorio Emanuele, ma questa volta l’impatto è stato amplificato dalla rapida diffusione dei video sui social, in cui si vedono ragazzi picchiarsi senza riserve, come in una sfida a chi alza l’asticella della brutalità.
I video della rissa, pubblicati e commentati sui social dal deputato Francesco Emilio Borrelli e dal consigliere della I Municipalità Lorenzo Pascucci, mostrano una realtà inquietante, dove giovani in contesti teoricamente sani si ritrovano protagonisti di atti che per molti anni si associavano soltanto a contesti più disagiati o emarginati. Entrambi i politici hanno denunciato la situazione, appellandosi ai genitori affinché non coprano i figli e li portino a costituirsi. “Non possiamo crescere una futura classe dirigente fatta di persone violente e prevaricatrici” ha dichiarato Borrelli, aggiungendo che soltanto con una punizione esemplare si può tentare di invertire questa tendenza.
Giovani e armi: una deriva preoccupante
Negli ultimi mesi, l’aumento dei sequestri di armi nelle mani di giovanissimi napoletani segnala una tendenza allarmante. La cronaca recente riporta casi inquietanti: carabinieri che presidiano piazze e strade della movida, come piazzetta Carolina, dove un sedicenne è stato sorpreso con una pistola da guerra mentre parlava con amici, o ragazzi fermati con coltelli e pugnali addosso come fossero oggetti comuni. In un controllo alla stazione di Piscinola, i militari della compagnia Vomero hanno sequestrato un coltello a serramanico lungo 15 centimetri a un diciottenne e due pugnali a due adolescenti di 15 e 16 anni.
I dati sui sequestri di armi sono impressionanti: da gennaio a settembre 2024, il comando provinciale di Napoli ha sequestrato 206 armi da fuoco, con un incremento di 51 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e 263 armi da taglio, in crescita di 91 unità. E ancora, 90 oggetti utilizzati come armi improprie – tra cui mazze, tirapugni e nunchaku – sono stati confiscati solo quest’anno. Una media che sfiora le due armi al giorno, segno di una normalizzazione della violenza che coinvolge sempre più giovani.
Una generazione che cerca il potere: il fascino del “territorio”
La questione va oltre il semplice possesso di armi e coinvolge l’aspetto più profondo della criminalità organizzata: il controllo del territorio. Sempre più ragazzi sembrano attratti dal desiderio di sentirsi potenti, di emulare quei vecchi “boss” e di prendere il loro posto. È una corsa al potere, fatta di prevaricazione e violenza, dove le giovani generazioni ambiscono a sostituire i vecchi capi camorristici, in un’illusione di “superiorità” e affermazione personale.
Questo fenomeno, che un tempo riguardava per lo più contesti disagiati, oggi investe anche ragazzi provenienti da famiglie considerate “perbene.” Giovani che, teoricamente, hanno avuto accesso a un’educazione e a valori che avrebbero dovuto proteggerli dalla deriva criminale. Tuttavia, il loro bisogno di sentirsi parte di un gruppo, di essere temuti e rispettati, li spinge verso comportamenti sempre più estremi e aggressivi.
La responsabilità sociale e il ruolo delle famiglie
In una realtà in cui la violenza giovanile sembra crescere, famiglie e istituzioni affrontano una sfida enorme: come insegnare ai ragazzi responsabilità e consapevolezza in un contesto che troppo spesso celebra l’aggressività? Molti genitori tendono a proteggere i figli anche quando sbagliano gravemente, alimentando in loro un senso d’impunità e la convinzione che tutto sia permesso, inclusa la prepotenza come forma di affermazione.
Questa difficoltà nel trasmettere ai giovani il valore della giustizia e della legalità richiama alla memoria il film Io speriamo che me la cavo. Qui, il maestro interpretato da Paolo Villaggio cerca di educare i suoi alunni di una scuola della periferia napoletana, lottando ogni giorno contro un sistema corrotto e immobile. La preside, interpretata da Isa Danieli, rappresenta la rassegnazione di chi pensa che “le cose vanno così.” Nonostante gli sforzi del maestro per portare educazione, studio e sane abitudini, il contesto ostacola ogni cambiamento.
Per i suoi alunni, all’inizio diffidenti, il maestro diventa una guida; presto si affezionano e lo supportano. Io speriamo che me la cavo è un racconto di degrado, tragedie familiari e ignoranza, ma anche di amore, riscatto e riflessione. Simboleggia l’impegno di chi, pur migliorando individualmente la vita dei ragazzi, si scontra con un sistema che non vuole cambiare. La scena in cui il maestro è costretto a lasciare la scuola e tornare nella sua città d’origine esprime la sconfitta di chi tenta di spezzare un ciclo radicato e difficile da superare.
Per molti napoletani, il film è un’espressione di frustrazione di chi cerca di fare del bene senza secondi fini, pur sapendo che spesso ci si rimette qualcosa di prezioso. Spesso, sono proprio le istituzioni a ostacolare chi cerca di rompere i meccanismi consolidati; perché, per chi vive con la convinzione che “le cose vadano così,” ogni cambiamento appare come una minaccia.
Il ruolo della scuola e della cultura: educare alla responsabilità e al rispetto
La scuola dovrebbe essere il primo baluardo contro la deriva sociale e la criminalità, un luogo dove imparare a distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Tuttavia, gli insegnanti si trovano spesso soli, con poche risorse e studenti che non sempre riescono o vogliono comprendere il valore della cultura. Molti giovani vedono la scuola come un obbligo distante dalle loro aspirazioni, mentre trovano nella strada e nella prepotenza un percorso più immediato per ottenere rispetto.
Le istituzioni devono capire l’importanza di investire in programmi educativi che coinvolgano davvero i giovani, rendendoli protagonisti e non spettatori passivi. L’istruzione dovrebbe andare oltre le materie scolastiche, includendo educazione civica e morale, e insegnando il valore delle regole e del rispetto per gli altri. Solo così si può costruire un futuro diverso per Napoli, dove i giovani possano realizzarsi senza cedere alla tentazione della criminalità.
Napoli e il futuro: quale speranza?
Oggi, Napoli ha l’occasione di non arrendersi, di non lasciare che giovani vite siano sacrificate inutilmente. Servono interventi che vadano oltre la repressione: educazione e progetti culturali, capaci di riempire il vuoto e dare ai ragazzi modelli positivi. Un impegno che parte dal tessuto sociale stesso, per disarmare letteralmente e figurativamente Napoli. A questo si è appellato anche il rapper napoletano Geolier, le cui parole forti – “Un libro è meglio di una pistola, perché è la cultura che annienta la criminalità” – sono state accolte con entusiasmo dalla comunità e dai suoi tanti fan. Geolier, cresciuto in un quartiere difficile, comprende bene la tentazione di alcuni giovani di “farsi rispettare” attraverso la violenza, e sottolinea che il cambiamento passa dall’educazione e dalla consapevolezza che esiste una strada diversa.
Un grido disperato, però, arriva anche dai coetanei delle vittime, come il ventunenne Salvo Di Noto, che ricorda il giovane 19enne ucciso per una scarpa sporca con queste parole:
SANTO, MIO COETANEO, LUI DICIANNOVENNE, IO VENTUNENNE.
Non so se il suo killer ora che ha smesso di usare le armi sta provando ribrezzo, dolore, rancore, so solo che i genitori di entrambi sono distrutti e lo saranno per sempre. Santo Romano è stato ucciso, per una banalità, per una scarpa sporcata, qualcosa che in una società normale si risolverebbe con un sorriso o una scusa. Invece, nella mentalità malata di chi pensa di ottenere “rispetto” con la violenza, quella scarpa è diventata un pretesto per togliere la vita a un ragazzo che di vita felice aveva tanto, data la sua giovane età.
C’è chi cerca di imitare la camorra, chi si atteggia da criminale per apparire forte, senza capire che la mafia è solo una montagna di merda, come diceva Peppino Impastato: un insieme di ignoranza, vigliaccheria e distruzione.
«Non c’è niente di nobile né di potente in questi atti e la rabbia cresce sapendo che certi giovani vedono nella criminalità un modello, che trovano ispirazione in figure finte e malate di “boss”» afferma il ventunenne Salvo Di Noto.
Continua: «Anche serie come Gomorra di Roberto Saviano, nate per denunciare, hanno purtroppo creato dei mostri. Non è colpa di Saviano, ma dell’interpretazione sbagliata di chi guarda senza capire, trasformando questi criminali in idoli da imitare. Questa è gente più pericolosa dell’intelligenza artificiale che tanto preoccupa oggi: sono creature vuote, capaci di distruggere vite per una scarpa sporcata, una banalità che se vista in un contesto di malvagità diventa banalità del male, fatta di individui banalmente comuni a poter compiere crimini.»
OGNI VITA SPEZZATA È UN COLPO A CHI CREDE IN UN FUTURO DIVERSO.
Santo era un ragazzo come me, un giovane che aveva davanti un futuro e dei sogni. Invece la sua vita è stata spezzata da chi non sa nemmeno cosa significa vivere, da chi pensa che spargere sangue sia sinonimo di “rispetto.”
Ma non c’è niente di rispettabile in questa follia, solo un abisso di ignoranza che rende la nostra società più vuota e più triste, fatta di gente con presunta esperienza che, ad ogni passo falso di un giovane, incolperà l’intera generazione di fallimento, compreso chi, di quella generazione, vuole creare fiori e non spine. Siamo continuamente giudicati come “senza valori,” come “una generazione allo sbando,” quando invece, accanto a questi atti orribili, ci sono giovani che cercano di costruire, di fare del bene, di dare un senso nuovo alla propria vita e alla società.
Ogni tragedia come quella di Santo diventa un’occasione per generalizzare, per puntare il dito contro tutti noi, per dire che “questa gioventù non ha speranza.” È più facile dare la colpa a un’intera generazione piuttosto che guardare in faccia i problemi veri, quelli che si annidano nelle famiglie, nella mancanza di educazione, nella mancanza di lavoro e di prospettive. È più semplice ignorare le radici del male, la disperazione di alcuni quartieri, e colpevolizzare tutti, anche chi lotta ogni giorno per fare la differenza.
I GIOVANI DI OGGI TANTO CRITICATI
Noi non siamo tutti così. Tra i “giovani di oggi” tanto criticati dalle televisioni e media c’è chi lotta per migliorarsi, per essere diverso da questi ragazzi che scelgono la violenza. Ci sono giovani che, come fiori che spuntano tra il cemento, cercano di costruire un futuro diverso, più giusto, di dare un significato alla propria esistenza. Siamo stanchi di vedere il nostro nome infangato da chi invece, per un vuoto di valori e di consapevolezza, sceglie la strada della prepotenza e della distruzione.
Santo Romano avrebbe potuto essere uno di questi fiori. Avrebbe potuto avere una vita piena di possibilità, avrebbe potuto scegliere di crescere, di amare, di costruire qualcosa di bello, come stava già facendo con la sua famiglia, la sua fidanzata e i suoi amici. Ma la sua vita è stata stroncata da chi non sa nemmeno cosa significhi costruire.
Un grido d’allarme quello lanciato da Salvo Di Noto, che, nonostante la sua giovane età pone al centro una questione veramente importante: lo status d’apatia inquietante che si insinua tra i giovani, come se la cronaca nera ormai facesse parte di una normalità accettata e indifferente.
Notizie come queste non riescono più a scuotere le coscienze né a provocare riflessioni profonde. Invece di interrogarsi sulle ragioni di questa violenza, molti giovani, confusi e privi di un modello solido, finiscono per imitare ciò che vedono, abbracciando una mentalità distruttiva.
Ma perché? Forse perché costruire è difficile, richiede tempo e determinazione, mentre distruggere è facile, immediato, un’espressione apparente di potere in un mondo che spesso nega possibilità concrete e prospettive.
In un contesto dove il rispetto sembra raggiungibile solo attraverso l’intimidazione e la prepotenza, costruire diventa un atto di coraggio che molti, purtroppo, non trovano la forza di compiere.
E così, si rifugiano in un nichilismo che li porta a vedere nella distruzione la strada più semplice per farsi notare, per cercare una sorta di affermazione.
Ma questa strada li allontana solo dalla vera consapevolezza, rendendo il loro futuro sempre più arido.
Napoli non è solo una città segnata dalla violenza, ma un luogo ricco di potenziale e speranza, una città in cui molti giovani lottano per un futuro diverso. È essenziale che Napoli sostenga questi ragazzi, proteggendoli da un sistema che spesso favorisce chi agisce con prepotenza anziché educare al rispetto. Ogni vita spezzata è un colpo a chi crede nel cambiamento, ma per onorare questi giovani, Napoli deve impegnarsi a diventare un simbolo di legalità e speranza.
In conclusione, la “strage degli innocenti” non può continuare a essere una ferita collettiva, ma deve diventare il punto di partenza per una nuova consapevolezza. Il mare di Napoli non può più tingersi di sangue, deve essere il mare di una città pronta a rinascere, come una fenice, proprio come nel quadro di Gennaro Regina, simbolo di un riscatto che tutti possono e devono contribuire a costruire.