Fulvio di Chiara non esiste, almeno non come persona in carne e ossa, è infatti lo pseudonimo dietro cui si celano due autori: Chiara Nervo e Fulvio Tango. Chiara e Fulvio sono compagni nella vita, hanno deciso di scrivere insieme perché condividono la passione per il giallo che sconfina nella commedia sullo stile di Fruttero e Lucentini, di Camilleri e più recentemente di Frascella. Il romanzo edito da Blitos edizioni racconta le vicende del commissario Sanfilippo, trovatosi ad indagare sull’omicidio dell’eclettico Don Zeno Ripoldi, alla guida della cosiddetta confraternita della Carità.
Il romanzo è un gioiello tra i gialli, un testo che partendo dal movente omicidio, è capace di presentare la storia di numerosi personaggi. Questi ultimi intrecciandosi tra di loro raccontano uno spaccato entusiasmamene di una città, Torino, che sembra ergersi su piedi mistici, nel mezzo tra le forze del bene e quelle del male.
Gli otto diavoli della chiesa di San Lorenzo, sembrano in qualche maniera presagire nefasti eventi, fino all’omicidio di Don Ripoldi, trovato riverso nel suo studio dalla donna delle pulizie.
Una storia che trova la via della risoluzione solo quando il commissario Sanfilippo affidandosi all’aiuto dei suoi amici di sempre Sandro e Vittorio, mette insieme pezzi di un puzzle intricato. Saranno molti i sospettati chiamati in causa: Emilio Bonaga, la signora Belvedere, Favizza e Carena. Ognuno di essi sembra in qualche maniera nascondere uno scheletro nell’armadio, fino alla risoluzione finale, quando il vero colpevole penetrerà le ombre dentro le quali si era nascosto, mostrando a tutti il movente più vecchio del mondo: il dio denaro.
Attraverso la figura di Don Ripoldi, il lettore potrà indagare da vicino le forze del bene e del male, attraverso un colloquio diretto, dove secondo Ripoldi, il bene ha bisogno del male e viceversa, in un avvicendarsi repentino, che non cesserà mai di esistere.
Il romanzo lascia spazio a storie autentiche, dove ogni personaggio avrà un peso specifico, attraverso il racconto interessante di una storia che vede Torino al centro di tutto. Un finale che lascia il lettore a bocca aperta, una storia che spalanca le porte al mistico.
Il testo è scritto con un linguaggio semplice e scorrevole, capace di svelare pagina dopo pagina luoghi, dubbi, persone. Un libro nato dall’unione di due autori, che grazie alla forza della loro penna diventano “Fulvio di Chiara”.
Dott. Di Chiara, ci può parlare del suo ultimo lavoro editoriale e com’è nata l’idea de “I diavoli di San Lorenzo?”
C: I diavoli di San Lorenzo è un romanzo giallo che definirei classico, nel senso che descrive un delitto e le successive indagini per svelare il colpevole. L’idea è nata mentre ci trovavamo proprio nella chiesa di San Lorenzo, perché la chiesa esiste, con i suoi diavoli naturalmente.
F: Ci trovavamo per caso nella chiesa di San Lorenzo, abbiamo alzato la testa per guardare la sua cupola. È tanto bella quanto inquietante: infatti le travi e le finestre del soffitto disegnano otto diavoli dall’aria minacciosa. Quella cupola sembrava quasi che ci guardasse con i suoi volti diabolici e ci dicesse: «Insomma, che cosa aspettate ad ambientare un giallo proprio tra queste mura? Dove lo trovate uno sfondo più adatto e suggestivo di me?»
La nostra idea è stata proprio quella di seguire il suggerimento di quei mascheroni diabolici.
Come nasce l’esigenza di parlare della chiesa e della religione? Cosa pensa lei al tal proposito?
C: Lo spunto iniziale, come dicevamo, è stata l’ambientazione. Quella cupola con i ghigni diabolici che osservano dall’alto è molto suggestiva e non volevamo che facesse solo incidentalmente da sfondo al delitto, ma volevamo renderla protagonista. Una chiesa e i diavoli. Allora è stato quasi naturale toccare il tema dall’eterna lotta tra bene e male. Il nostro Don Ripoldi, che nella finzione letteraria è il parroco di San Lorenzo, ha una sua personale visione in proposito. Oggi viviamo in una società che va di fretta, e troppe volte agiamo senza pensare al senso delle nostre azioni e alle loro implicazioni. Invece, credo che ogni tanto ci farebbe bene fermarci e riflettere. Quindi, se in un romanzo dal tono comunque leggero, siamo riusciti a suscitare qualche domanda su questioni più profonde, la cosa mi fa molto piacere.
F: L’esigenza di parlare della chiesa e della religione si è imposta prepotentemente una volta scelta l’ambientazione. Una chiesa con dei diavoli nascosti nella cupola, a Torino poi, la città del mistero per eccellenza. Non potevamo mica tirarci indietro. In particolare abbiamo sentito la necessità di parlare del bene, del male, del loro rapporto e della loro convivenza. Tutte tematiche con cui ogni religione o filosofia di vita si trova prima o poi ad imbattersi. Non volevamo fare un trattato di etica o di teologia, però, attraverso il nostro don Ripoldi e la sua audace teoria secondo cui il bene ha bisogno del male, forse siamo riusciti a mettere in evidenza come certe volte le situazioni sono più sfumate di come vorrebbero i precetti morali che ci hanno inculcati sin da bambini. È la vita che tende a sfumare e a confondere i confini tra quello che a livello teorico vorrebbe essere stabilito con certezza, una volta per tutte.
In che momento nasce la passione per la scrittura e che cosa prova nel momento in cui entrata in sintonia con i suoi “personaggi?”
F: Personalmente ho sempre avuto la passione per la lettura. Sono stato un lettore compulsivo sin da bambino. Poi, un certo momento, qualche anno fa (vado per i cinquanta, quindi è proprio il caso di dirlo: meglio tardi che mai) ho deciso di restituire quello che ho accumulato con la lettura di centinaia, ma forse anche migliaia, di libri. Può sembrare strano, ma per me scrivere è un po’ restituire quello che i numerosi scrittori che ho avuto il piacere di leggere mi hanno regalato e insegnato. Quando sono sicuro di essere entrato in sintonia con un personaggio? Ma quando è lui che prende il comando. È lui che decide cosa fare e cosa dire, io mi limito a seguirlo digitando sulla tastiera le parole.
C: Sottoscrivo!
La particolarità di questo romanzo è data anche dal nome, che sembra uno, ma in realtà dietro di esso si celano due autori. Com’è lavorare a quattro mani ma soprattutto chi è la mente e chi è il braccio e chi decide come delineare i personaggi?
FULVIO DI CHIARA: Dott.ssa Calì, mi permetta di inserirmi nell’intervista per rispondere a questa domanda. La vera mente sono io, Fulvio Di Chiara! Certo, essendo io solo uno pseudonimo, non posso fare a meno della collaborazione dei miei scribacchini, che mettano nero su bianco le idee che suggerisco loro, come questa dei diavoli di San Lorenzo. Posso anche concedere loro che si discuta delle mie proposte, ma in ultima analisi rivendico la paternità delle idee!
C: Lo pseudonimo ha un bel caratterino, praticamente ci tiranneggia! Però direi che è Fulvio ad avere una maggior visione d’insieme della vicenda. Poi, a turno, uno di noi due scrive, e l’altro fa una prima revisione, a cui ne seguono varie altre che facciamo insieme. Per cui alla fine è difficile stabilire chi abbia scritto una certa pagina e chi un’altra.
C: Riguardo ai personaggi, all’inizio sono un po’ timidi, ma poi, a poco a poco, decidono loro cosa fare, cosa dire e come dirlo. I diavoli di San Lorenzo è il secondo romanzo in cui i solutori del caso sono il commissario Sanfilippo e i suoi amici Sandro e Vittorio. Loro tre in particolare hanno ormai una vita propria e alle volte, nel quotidiano, ci capita di dire: qui Sandro farebbe così, oppure “Ah”, che è l’intercalare tipico di Vittorio. E poi, i personaggi hanno le loro preferenze, nel senso che alcuni parlano più spesso con Fulvio, altri con me.
F: In questo caso non ho davvero niente da aggiungere a quello che ha già detto Chiara, se non ribadire che è quel tiranno dello pseudonimo che rivendica la paternità delle idee e delle storie. Come un demone (sempre per rimanere in tema di misteri) che a turno ci possiede e manda avanti la storia.
Una coppia nella vita ma anche nella scrittura, quanto la passione può migliorare il rapporto personale e quanto bene fa al rapporto in sé?
C: Diciamo che è un ulteriore spazio di condivisione, per cui qualche volta si discute anche animatamente. Ma io personalmente mi diverto molto. Soprattutto quando facciamo il lavoro di revisione.
F: La scrittura è fonte di un ulteriore legame, un ponte per scambiarsi idee e emozioni. Lo scrivere insieme funziona anche perché tra noi non si è mai generata competitività o la voglia di primeggiare sull’altro. E poi ci divertiamo molto, in fin dei conti è per questo che continuiamo a scrivere insieme.
C: E comunque siamo sempre molti più di due: aleggia sempre la presenza dello pseudonimo, c’è il lettore ideale, ci sono i personaggi che dicono la loro, …insomma un bel po’ di gente!
Come mai la passione per il genere giallo e soprattutto qual è l’elemento che non deve mai mancare in un giallo?
C: La passione per i polizieschi, per il mistero, anche per il noir, l’ho sempre avuta. Penso alla letteratura: Edgar Allan Poe, Agatha Christie, Simenon, Fruttero e Lucentini, Camilleri. Ma anche al cinema, Hitchcock in particolare. Mi piacciono le storie in cui l’indagine sul delitto è anche un’indagine sulla natura umana.
Credo che il giallo soddisfi a due bisogni: il bisogno di violenza, perché nella finzione letteraria si possono commettere delitti efferati e lasciar sfogare le pulsioni più istintive, e quello di fare ordine, di capire i motivi che hanno spinto ad agire in un certo modo.
C: Cosa non deve mai mancare? La suspense, la curiosità di sapere cosa accadrà dopo. E qui, mentre scriviamo, la presenza del lettore è importantissima: lo teniamo d’occhio, se mostra cenni di noia allora qualcosa non sta funzionando.
F: Nelle mie numerosissime letture mi sono sempre piaciuti i gialli e i thriller, direi quasi a livello istintivo. Amo Agatha Christie, Andrea Camilleri e Stephen King. Ma ho apprezzato tantissimo e apprezzo tutt’ora anche autori completamente diversi, come Cesare Pavese e Roberto Saviano. Però, quando si tratta di mettermi io a scrivere, allora mi viene naturale, quasi istintivo come dicevo prima, scrivere un giallo o un thriller. Forse perché è il genere letterario che mi è più entrato nel sangue.
Come mai avete scelto di ambientare il romanzo a Torino e cosa si sente di consigliare per chi non ha mai visitato la città?
C: Abbiamo ambientato il romanzo a Torino perché è la città dove abitiamo e ci piace. Anche se siamo nati e cresciuti qui, scopriamo spesso cose nuove, sia fatti storici o di cronaca, sia luoghi, alle volte veri e propri quartieri, che non conoscevamo.
F: Ma perché Torino è la città del mistero e dei “sogni inquieti”, basta girare una sera per le sue vie del centro per rendersene conto. Non a caso un regista come Dario Argento vi ha ambientato diversi suoi capolavori, uno su tutti Profondo Rosso (anche se nella finzione la vicenda si svolge a Roma).
A chi viene a Torino per la prima volta, tra una visita e l’altra alle maggiori attrazioni turistiche, consiglio di girare tra le sue strade, le sue piazze e i suoi portici, di respirarne l’atmosfera, di immergersi senza remore nel suo mistero e nella sua inquietudine.
C: Sicuramente non può mancare una visita alla chiesa di San Lorenzo! Torino ha tante facce, per anni è stata identificata con la Fiat, e forse questo, dal punto di vista turistico, l’ha penalizzata, facendo pensare a una città puramente industriale, mentre ha tante bellezze architettoniche e naturali. È stata anche la prima capitale d’Italia e la presenza della famiglia reale ha lasciato in eredità regge e palazzi. Ma accanto a tanta aristocraticità ci sono quartieri come Porta Palazzo e il suo mercato, dove si incontrano diverse culture, o il quadrilatero romano e i suoi locali coi tavolini all’aperto, dove d’estate sembra di essere in un luogo di mare.
E poi, come dice Fulvio, credo sia bello scoprirla passeggiando per le sue vie e i suoi parchi.
Può raccontarci una sua giornata tipica da scrittore?
F: Per giornata tipica dello scrittore intendo una giornata completamente dedicata allo scrivere, libero da altri lavori fatti per sbarcare il lunario. Confesso che sono terribilmente metodico quando posso dedicare tutta la giornata alla scrittura. Al mattino mi occupo dello scrivere vero e proprio, devo arrivare a buttare giù almeno millecinquecento parole, ma anche duemila se i personaggi collaborano e mi aiutano. Poi rileggo, tante volte, fino a che non sono soddisfatto del risultato. Dopo, siamo già nel pomeriggio, mi dedico alla lettura. Leggo anche cinque libri contemporaneamente, di generi e autori diversi. Per scrivere bene penso che sia fondamentale leggere molto. Dei libri che leggo mi annoto espressioni o metafore che mi piacciono particolarmente, in modo che contribuiscano ad arricchire il mio bagaglio di scrittore.
C: Anche io, avendo un lavoro da impiegata a tempo pieno, mi dedico alla scrittura solo nel fine settimana o in vacanza. In questi casi, posso dire che Fulvio è molto più rigoroso e disciplinato di me. Io sono capace di passare mezza giornata davanti al foglio bianco, senza scrivere una parola, oppure di mettermi a scrivere e non finire più, fino a che Fulvio non protesta con veemenza perché sono le tre del pomeriggio e ancora non abbiamo pranzato!
Un romanzo che pone al centro la tematica del bene e del male. Due entità che a volte si uniscono e, l’una prende il sopravvento sull’altra. Secondo lei, perché oggigiorno il male prende sempre il sopravvento sul bene e perché sembra che a volte sia così difficile liberarcene?
F: Non credo che il male prevalga sul bene, fa più rumore, colpisce maggiormente le nostre sensibilità. C’è molto male nel mondo, è sempre stato così, non solo oggi. Ai nostri giorni forse i media ci fanno vedere più chiaramente quello che non va. Questo non è necessariamente un male (per rimanere in tema di bene e male), è una caratteristica dei nostri giorni. Ma qui mi fermo perché il discorso diventerebbe enorme. Per concludere mi sento solo di dire, come affermerebbe don Ripoldi, che il male può anche essere un’opportunità per il bene di far sentire la sua presenza.
C: Il male è più accattivante, o anche solo più comodo. Pensando alla Storia, non credo che oggi il male predomini sul bene più che in passato. Certo non stiamo vivendo nella migliore delle società possibili, anzi. Tuttavia, per tante azioni malvage che fanno molto scalpore, ci sono altrettante azioni buone che si fanno in silenzio. Credo che bene e male esisteranno sempre, entrambi, forze contrapposte ma mai nettamente separate, per cui è impossibile che una annulli l’altra.
Ha in mente altri lavori editoriali? Se sì, su che tematica?
F: Continueremo a scrivere altri romanzi con protagonisti gli stessi personaggi de I diavoli di San Lorenzo: il commissario Sanfilippo con i suoi amici Sandro e Vittorio. Il terzo libro con loro come protagonisti uscirà a breve. E poi abbiamo quasi finito un romanzo diverso, un noir possiamo definirlo, ambientato sempre a Torino, ma negli anni ottanta. L’atmosfera è decisamente più cupa, speriamo che piaccia, noi abbiamo trovato molto interessante cimentarci con qualcosa di diverso.
C: E comunque tutto dipende da quello che decide lo pseudonimo!
Ha scritto altro in precedenza? Se sì, può parlarcene
F: Prima dei diavoli di San Lorenzo ho scritto con Chiara un altro romanzo con gli stessi personaggi intitolato La forma del delitto, che abbiamo pubblicato l’anno precedente. Ancora prima, ho scritto soprattutto diversi racconti di vario genere, spesso anche quelli avevano come argomento delle situazioni misteriose. Diverse idee contenute nei nostri romanzi erano già presenti in quei racconti in forma embrionale.
C: Un po’ di anni fa avevo scritto qualche racconto, senza però pensare alla pubblicazione. Poi abbiamo deciso di affrontare una forma più complessa, come il romanzo. E abbiamo trovato nel giallo il nostro genere, perché come dicevamo prima, ci piace molto.
Un punto di forza per il quale i lettori dovrebbero leggere questo romanzo?
F: Direi il rapporto di collaborazione e amicizia tra il commissario e i suoi amici. Le pagine più belle e più divertenti del libro sono quelle basate sull’iterazione tra questi tre personaggi. Nessuno dei tre si può dire che prevalga sull’altro o che sia il vero protagonista, è il rapporto che si crea tra di loro che costituisce il vero motore della storia.
C: Quello che ha detto Fulvio è sicuramente vero. E forse è proprio il rapporto tra i tre che coinvolge il lettore a partecipare all’indagine (o almeno così spero!). Infatti, mi sento di dire che siamo onesti verso i lettori, nel senso che non teniamo nascosto alcun indizio utile alla soluzione del caso, così che i fatti noti al nostro commissario e ai suoi amici, sono tutti svelati.
Qual è il protagonista che più si rispecchia e per quale motivo?
C: Non c’è un personaggio in cui possa dire di rispecchiarmi, ma ce ne sono alcuni per cui provo più empatia, come la Giusi, la domestica che scopre il cadavere, o il tormentato Emilio Bonaga, uno dei sospettati dell’omicidio. E poi c’è ad esempio Sofia, che ha la mia stessa abitudine di mettersi a canticchiare mentre sta parlando suo marito Sandro, il quale, come Fulvio, trova questa abitudine tremendamente irritante!
F: Sicuramente Sandro, il più strampalato di tutti! E poi anche a me piace portare coppole improbabili!